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La soggettività come proposta di approccio per pensare alla valutazione degli studenti ritenuti difficili: un metodo di psicoanalisi applicata per pensare al disagio in educazione

RC: 140263
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CONTEÚDO

ARTICOLO ORIGINALE

CURVELO, Carmem Lana Pereira [1]

CURVELO, Carmem Lana Pereira. La soggettività come proposta di approccio per pensare alla valutazione degli studenti ritenuti difficili: un metodo di psicoanalisi applicata per pensare al disagio in educazione. Revista Científica Multidisciplinar Núcleo do Conhecimento. Anno 04, Ed. 05, vol. 03, pagg. 114-128 maggio 2019. ISSN: 2448-0959, Link di accesso: https://www.nucleodoconhecimento.com.br/psicologia-it/proposta-di-approccio

RIEPILOGO

Il presente articolo presenta i risultati dell’applicazione di una metodologia nata da un’esperienza interdisciplinare per l’indagine del “bambino-problema”, che consiste nel presentare uno studio sulla costruzione clinico-psicoanalitica di ciascun caso studentesco, avendo l’attenzione si è concentrata su quegli studenti considerati una vera sfida per il team pedagogico della scuola, a causa non solo delle difficoltà di apprendimento in termini di lettura e scrittura, ma considerando anche altri aspetti come la presenza di comportamenti disturbanti e inappropriati con insegnanti e compagni di classe la ricerca è stata condotta nelle scuole pubbliche e private di Belo Horizonte – Minas Gerais Dall’analisi dei dati raccolti, è emersa la necessità di pensare a questi studenti attraverso la metodologia difesa, perché è in grado di rendere la facoltà dell’istituzione , dopo le dovute analisi, guarda questi studenti in modo più empatico per comprendere meglio questa lacuna nell’apprendimento e nel comportamento. Gli insegnanti partono dal principio che, per vivere in armonia, è necessario che gli eventi vissuti in classe siano risignificati dalla storia stessa del bambino. L’analisi di queste interazioni, a sua volta, fornisce strategie affinché il lavoro quotidiano con gli studenti sia ben svolto. Si tratta di una metodologia che ha cercato di indagare come la soggettività possa contribuire al processo di valutazione della difficoltà, evitando la tendenza all’esclusione degli studenti per “indisciplina”.

Parole chiave: Bambini problematici, Problemi di apprendimento, Soggettività, Inclusione, Psicoanalisi.

INTRODUZIONE

In primo luogo è necessario precisare che questo articolo è nato dal progetto di ricerca collocato nell’ambito della Psicoanalisi e dell’Educazione dal titolo “Pratiche scolastiche per pensare al “bambino problematico”: sfida dell’inclusione”, il cui obiettivo era quello di applicare questa metodologia in un caso di studio interdisciplinare – caratterizzato come diagnostico, clinico e pedagogico. Aveva lo scopo di osservare le difficoltà di apprendimento e i disturbi del comportamento. Questa ricerca è stata condotta in una scuola statale di educazione speciale, situata nella città di Belo Horizonte/Minas Gerais, ed è partita da un invito fatto dal consulente pedagogico della scuola. Si sperava che venissero realizzati studi di casi incentrati su alcuni studenti considerati vere sfide per il team pedagogico della scuola. Si trattava di bambini che presentavano non solo difficoltà di apprendimento nella lettura e nella scrittura, ma anche comportamenti disturbanti e inappropriati nei confronti di insegnanti e compagni di classe, senza contare le frequenti crisi di agitazione segnate dalla violenza, che imponevano, nella maggior parte dei casi, a volte, interventi psichiatrici d’urgenza e , a volte, ci sono stati casi in cui c’è stato l’intervento della polizia.

All’interno di questo asse di ricerca, hanno preso forma alcune domande, principalmente le seguenti: cosa fare di questi studenti che sono considerati “bambini problematici” per alleviare l’insuccesso scolastico? L’esigenza iniziale era che si svolgesse un’indagine approfondita di questi casi, attraverso una diagnosi clinico-pedagogica per analizzare le difficoltà di apprendimento dei bambini in due diversi ambiti: uno cognitivo e l’altro relativo all’economia soggettiva dello studente (Santiago, 2005). È stato osservato che questi studenti difficili erano già stati studiati, valutati e diagnosticati. Oltre ad essere stati sottoposti a innumerevoli indagini, questi bambini hanno ricevuto ogni tipo di attenzione specialistica: rieducazione pedagogica e logopedica, hanno partecipato a laboratori terapeutici, sono stati seguiti psicologicamente e sotto controllo psichiatrico. Questa attenzione è stata estesa anche ai genitori, attraverso programmi di orientamento e sostegno alla famiglia.

Nonostante ciò, è stata avanzata dal consulente educativo una nuova richiesta di studio di caso, ma questa volta basata sulla verifica dell’inefficacia di questi vari interventi realizzati con quei bambini. I professionisti coinvolti hanno ripetutamente affrontato i limiti delle loro specialità. Anche se, nel corso degli anni, non hanno smesso di continuare la loro formazione professionale, cercando un contatto continuo con nuovi approcci teorici che venivano lanciati, di volta in volta, nel mercato della conoscenza, le sfide nel trattare con questi ragazzi sono state molte. L’iniziale entusiasmo per il contatto con altre dimensioni di un problema che forse causava l’insuccesso scolastico, così come le sue proposte di intervento rieducativo o psicoterapeutico, finirono per lasciare il posto alla convinzione che alcuni casi sarebbero rimasti come enigmi indecifrabili.

Cosa fare con lo studente che scrive ma non sa leggere? Come valutare chi, a casa, parla, ma, a scuola, mai pronunciata nemmeno una sillaba, non risponde a nessuna richiesta dell’insegnante? Come garantire l’inclusione di coloro che, alla minima frustrazione, disgregano la scuola? Sono alcuni degli interrogativi riaperti dalla scommessa dei professionisti di quella scuola sul contributo della psicoanalisi all’educazione. Questa prospettiva è stata adottata per riflettere su dove fosse localizzato il disagio dell’educazione. Questo contributo ha risvegliato negli interessati la necessità di comprendere la particolarità dell’argomento, per questo, questi ricercatori sono andati oltre le offerte identificative proposte dai diversi approcci teorici.

Il primo contatto con questo problema è avvenuto attraverso il lavoro di tesi intitolato “Sull’inibizione intellettuale in psicoanalisi” (Santiago, 2005), in quanto discute le modalità di diagnosi dei problemi di apprendimento e il modo in cui lo studente può essere identificato come affetto da deficit. Per la natura stessa del processo di valutazione utilizzato, queste diagnosi non sono consapevoli della necessità del bambino di servirsi del significato dei contenuti scolastici per inscrivere la loro particolarità e persino di percepire, cioè sentire, questi contenuti. Non è possibile dire che ogni difficoltà di apprendimento si manifesti a partire da un sintomo, ma dire che è necessario indagare il processo di formazione dell’inconscio.

A nostro avviso, l’ignoranza della dimensione soggettiva porta a difficoltà di apprendimento, che spesso rendono impraticabile qualsiasi tentativo di intervento terapeutico, producendo effetti indesiderati come la segregazione e l’esclusione degli studenti dalla regolare istruzione. È noto quanto le strategie terapeutiche per garantire al soggetto l’accesso ad una prestazione prevista dai requisiti della norma finiscano per culminare nell’impotenza: non è raro che la permanenza di una difficoltà di apprendimento duri l’intera vita scolastica di un bambino – e che, quando non interrompe la sua traiettoria scolastica, a causa della persistenza del fallimento. Tale constatazione ha portato alla proposta di un iter diagnostico, denominato clinico-pedagogico, il cui obiettivo era quello di individuare lo stato della difficoltà in due diversi ambiti: uno cognitivo e l’altro relativo all’economia soggettiva dello studente.

La valutazione cognitiva si basa sull’indagine della conoscenza del bambino, nel rigoroso piano della sua padronanza dei fondamenti teorici assolutamente essenziali per superare gli errori di contenuto. Oltre alla padronanza teorica dei contenuti, le impasse di apprendimento sono indicative di sintomi di inibizione intellettuale. In questa prospettiva, cerchiamo di chiarire la traiettoria intellettuale in cui il bambino si sviluppa, dalla soluzione di un compito, al punto preciso in cui si trova la sua impasse soggettiva, l’articolazione del contenuto.

La metodologia della diagnosi clinico-pedagogica si ispira a due distinti approcci teorici qui esplorati, in modo complementare. Il metodo clinico proposto dall’approccio cognitivo per indagare le ipotesi concettuali presenti nella produzione di errori da parte del discente ha lo scopo di esplorare il metodo, in quanto processo fondamentale per la loro decostruzione e superamento. Viene invece utilizzata la metodologia del colloquio con il paziente – strumento centrale di conoscenza della psicopatologia psichiatrica – che, nell’ambito della pratica psicoanalitica, indaga come determinati sintomi compaiono nel discorso del paziente.

Così, il bambino viene interrogato sulle sue difficoltà scolastiche, proprio come un paziente viene interrogato sui suoi sintomi. Va notato che questo atteggiamento investigativo è possibile solo quando l’intervistatore si mette nella condizione di non sapere di fronte all’altro, spogliandosi del ruolo allettante di padrone, che l’adulto tende normalmente ad adottare di fronte a un bambino. La risorsa dell’ascolto di ciò che il bambino stesso ha da dire sulla sua difficoltà, cioè del tener conto di ciò che il soggetto sa di ciò che le accade, consente non solo di chiarire elementi di soggettività o di significato inconscio, ma aggiunge la minimo di significato che i contenuti scolastici devono avere, nonché una specifica modalità di intervento rieducativo.

In sintesi, la diagnosi clinico-pedagogica mira a conciliare l’indagine dei processi della coscienza con il pensiero concettuale, in quanto entrambi subiscono un processo di sviluppo della conoscenza nell’ambito dei processi di apprendimento della lingua scritta. Come diceva già Jean Piaget (Ferreiro e Teberosky, 1985/1991; Kamii, 1989/1992; Oliveira & Nascimento, 1990; Oliveira, 1992; Alvarenga, 1993; Macedo, 1994), l’indagine psicoanalitica dei processi inconsci primordiali deve essere alla base la produzione di errori nella costruzione della conoscenza. Non è solo uno strumento di ricerca, ma anche un intervento con bambini con disturbi dell’apprendimento. In altre parole, la diagnosi clinico-pedagogica è una proposta di cura delle difficoltà scolastiche che deve essere svolta all’interno dell’istituzione scolastica, al fine di evitare l’esclusione del bambino.

MATERIALI E METODI

L’utilizzo di questa proposta diagnostica per la realizzazione di una casistica su studenti di educazione speciale ha rivelato alcuni limiti e, come tale, ha richiesto l’introduzione di alcune modifiche, rendendo necessaria la proposta di procedure complementari, a seconda delle particolarità delle difficoltà dello studente, quali, ad esempio, l’impossibilità di un contatto diretto con alcuni di essi. A causa della mancanza di accesso a determinati profili degli studenti, i criteri dovevano essere ripensati, così come i possibili collaboratori nello studio. Trattandosi di una metodologia che si occupa di analizzare la coscienza umana, una delle maggiori sfide è stata quella di interpretare le particolarità/individualità.

I professionisti coinvolti, avvalendosi delle loro conoscenze specifiche, hanno optato per una tipologia di case study globale, che comprendesse uno studio sulla vita scolastica del bambino, difendendo così la necessità di un’analisi che si occupasse della comprensione della lingua scritta e parlata, sempre pensare all’ambiente della classe (Castanheira, 2004). Per questo è stata effettuata un’indagine storica per recuperare le cartelle psichiatriche e psicologiche di questi studenti, per l’analisi di questo quadro clinico. Si è cercato di analizzare come si sono comportati nelle sessioni di intervista guidati dal contributo della psicoanalisi, in quanto considera la formazione del sintomo, le particolarità del soggetto e la sua struttura psichica (Santiago, 2005). Lo strumento di valutazione clinico-pedagogica ha iniziato così a comporsi di tre fasi: anamnesi, valutazione pedagogica e valutazione clinica.

L’obiettivo della prima fase – case history – è stato quello di definire un profilo dello studente sulla base delle informazioni fornite sullo studente dai professionisti della Scuola. Cerca di delineare:

1) Cosa si dice dello studente;

2) Quali elementi teorici sono incorporati in questo discorso, costruito nel tentativo di spiegare il problema dello studente; È

3) Quali informazioni da questo discorso sono contraddittorie o vaghe.

Si è voluto evidenziare, dall’insieme delle informazioni raccolte, ciò che circola tra gli educatori, gli aspetti più rilevanti che vengono ad identificare lo studente nello spazio scuola e, da questi dati, si è anche verificato se tali offerte identificative provengano da ciò che conosce la loro storia familiare, gli antecedenti clinici, il percorso psichiatrico, con l’obiettivo di valutare se questi fattori modellano il loro comportamento a scuola o rimandano all’evoluzione del piano pedagogico. Sempre in questa prima fase, è stato condotto uno studio dei dati registrati nei registri scolastici, cercando di stabilire un secondo profilo dell’alunno, il cui obiettivo era quello di ricercare e comprendere il motivo dell’invio alla scuola di educazione speciale. Le due domande che guidano questo studio sono:

1) Cosa è stato decisivo per l’identificazione dello studente come “con bisogni speciali”?

2) Esiste una valutazione dell’alunno in termini di apprendimenti scolastici oppure spicca la denuncia di disturbo del comportamento che indica una difficoltà in termini di sintomo?

Successivamente, è stata compresa la storia clinica dello studente in base all’analisi della sua cartella psichiatrica, nella quale sono stati registrati i dati relativi al follow-up relativo alla chemioterapia e/o al trattamento terapeutico. La seconda fase – valutazione pedagogica – prevede una serie di osservazioni sulla performance dello studente in classe e nell’ambiente scolastico, considerando, per la valutazione, i seguenti aspetti: l’interazione dello studente con l’insegnante, con i colleghi e con l’apprendimento e l’interazione dell’insegnante con lo studente, con la classe e con le pratiche educative in aula.

Cercando di non evidenziare l’obiettivo della sua osservazione, il ricercatore è stato presentato alla classe, la quale, a sua volta, ne ha enunciato lo scopo in generale, e, successivamente, ha partecipato alle attività previste dal docente in aula, interagendo attivamente con tutti studenti. La produzione pedagogica dello studente problematico è stata valutata tra le altre, così come le forme di valutazione proposte. L’insegnante e l’intervistato hanno cercato di chiarire questi aspetti. Nei casi in cui ciò sembra giustificato, è stata proposta anche una valutazione pedagogica individuale dello studente, volta a situare il livello cognitivo al quale si è trovato a lavorare sugli errori ricorrenti nella prospettiva della loro decostruzione.

RISULTATI E DISCUSSIONE

Sulla base di una valutazione clinica basata sull’analisi di interviste che prendevano a modello la procedura di “presentazione al paziente”, si è cercato di interpretare, insieme ad essa, le altre fasi basate sui contenuti registrati e trascritti con il consenso del intervistato, per procedere successivamente ad un’analisi più approfondita. Il punto di partenza di questa intervista clinica cerca di interrogare, affettivamente, il bambino sul suo sintomo, in questo caso, la difficoltà a scuola sulla base della proposizione di alcune domande: Perché è stato indirizzato a un’educazione oa un trattamento speciale? Qual è la tua difficoltà scolastica? A che punto è apparso? Come si è evoluto?

Quello che si cerca di capire è come si configura la conoscenza dello studente su ciò che gli accade, cioè su ciò che costituisce un malessere. In questa fase, i genitori o tutori possono utilizzare una fonte che contenga le informazioni principali sugli intervistati, quindi sono stati consultati solo per potersi situare, mentre presentavano la storia dello sviluppo generale del bambino, con le risposte del bambino a quanto gli veniva chiesto e offerto, in termini di relazioni familiari fondate sui desideri, ideali e modalità di soddisfacimento più caratteristici del gruppo familiare.

Sulla base delle informazioni raccolte durante questo processo diagnostico, viene eseguita la costruzione del caso. Dell’insieme dei fatti, inizialmente collocati in una sequenza diacronica, solo alcuni risalteranno come risposte sintomatiche del soggetto. Questa lettura viene effettuata per retroazione, cercando di localizzare la produzione del sintomo o della difficoltà del bambino nell’asse sincronico, come rappresentato di seguito:

È attraverso questa relazione retroattiva che la psicoanalisi individua gli eventi traumatici degli incontri del soggetto con la realtà e, d’altra parte, mette in luce l’effetto simbolico di questo incontro, personificando il sintomo. Per la psicoanalisi, quindi, non è possibile prevedere che un evento X, vissuto in un tempo – T1 avrà come conseguenza, in un tempo futuro – T2 – la produzione di un sintomo X. Il tempo della comparsa del sintomo è sempre un T2, che produce un effetto di significato sul trauma vissuto in T1. Questo schema – in cui un significato ha luogo solo a-posteriori, per ritrazione – nell’opera di Jacques Lacan (1936/2001), ha un valore polivalente. Serviva non solo a mettere in relazione il trauma con la produzione del sintomo, ma anche a situare il transfert, a formalizzare il desiderio del soggetto nella sua relazione con l’altro, con l’analista e con il sapere.

In definitiva, questo schema si presta a diverse formalità e costituisce così la cellula base della relazione analitica, per esporre la concezione stessa dell’inconscio. La logica di questo schema guida la costruzione del caso dello studente sulla base della sua produzione sintomatica, che ha consentito anche una definizione diagnostica dal punto di vista della struttura psichica. Tale costruzione è stata presentata ai professionisti della scuola, unitamente alle proposte di intervento studiate caso per caso, tenendo conto delle particolarità della materia. Per uno studente, ad esempio, è stato proposto un laboratorio di alfabetizzazione che utilizza lettere d’amore come supporto didattico.

Per un altro, il cui studio di caso mostrava la presenza di delirio, il rinvio proposto, in un primo momento, era l’adeguatezza del farmaco alla condizione (lo studente usava solo tranquillanti), per consentirgli di rimanere a scuola. Data l’impossibilità di esporre, in questo lavoro, i risultati relativi a tutti i casi studiati durante lo sviluppo del progetto, si è deciso di presentarne in dettaglio solo uno, a dimostrazione della metodologia impiegata.

ARGOMENTO DI STUDIO

Uno dei casi studiati durante lo sviluppo di questo progetto è stato quello di una ragazza di 13 anni – al momento della diagnosi – che qui verrà designata con il nome di Lu. Era una studentessa abituale, assidua e costituiva un enigma per l’équipe pedagogica. Nessun insegnante era riuscito, da quando era entrato nella scuola più di sei anni fa, ad effettuare una valutazione pedagogica della stessa. Ciò era dovuto principalmente al fatto che non parlava. Contrariamente a questa constatazione, la madre della bambina ha affermato che, a casa, parlava normalmente. Un altro punto sollevato come difficoltà nella valutazione della studentessa è stato il fatto che Lu presentava sempre i suoi compiti completi e svolti correttamente.

A scuola, invece, non rispondeva a nessuna richiesta del suo insegnante e non rispondeva a nessuna richiesta che gli veniva fatta. Pertanto, si sospettava che la sorella maggiore lo aiutasse a svolgere i suoi doveri. Dal primo profilo di questa studentessa, stabilito in base a quanto di lei hanno detto i professionisti della scuola, sono emersi questi elementi e l’ipotesi di un quadro di autismo. In breve, ciò che identificava Lu a scuola era l’essere stupida e pazza, persino essere chiamata “ragazza stupida” e “ragazza pazza” dai compagni di classe. La lettura dei dati registrati nelle cartelle scolastiche e psichiatriche ha permesso di elaborare la seguente sequenza diacritica relativa alla storia di Lu:

  • 1988 – Nascita di Lu.
  • 1993 – Ricovero per nefrite, anemia e gastroenterite (complicanze dovute ad un grave caso di malnutrizione).
  • 1993 – La madre nota lo strano comportamento della figlia: irritabilità e scarsa comunicazione con i familiari.
  • 1994 – Frequenta la scuola materna per un anno e tre mesi, ma non impara nulla.
  • L’insegnante osserva che Lu non accompagna la classe nelle attività o nei giochi, non dice niente né a lei né ai compagni, viene picchiato senza reagire e non piange quando viene aggredito. A quel tempo, gli educatori suggerirono alla madre di rivolgersi a un medico per valutare sua figlia.
  • 1995 – Primo consulto psichiatrico e logopedico presso il CPP – Centro Psicopedagógico: Lu è molto agitata, si dimena sulla sedia, mostra tic nervosi e non pronuncia una sola parola. Indicazione diagnostica: “Psicosi infantile?”
  • 1996 – Si registra in cartella clinica: “contatto difficile e la presenza dell’altro diventa minacciosa per il bambino”. Indicazione diagnostica: “Debolezza mentale? Autismo?”

Gli elementi forniti dall’intervista con la madre di Lu – Júlia – hanno permesso la seguente costruzione: D. Júlia è separata dal marito e alleva quattro figli con il frutto del suo lavoro e il sostegno della chiesa. Lu è la figlia più giovane. Le circostanze della storia d’amore familiare, in questo caso, richiamano l’attenzione. La prima volta che D. Júlia vide l’uomo che divenne suo marito fu in una chiesa. Quest’ultima era ubriaca e semicosciente, china sul banco di una chiesa situata nel centro della città, dove Dona Júlia si recava spesso a recitare le sue preghiere. Qualche tempo dopo lo ritrova in un’altra chiesa, situata in un quartiere. Come prima, aveva bevuto alcolici ed era semicosciente.

Questa seconda volta è successo! Lo stato di ebbrezza di quell’uomo, dall’aria bonaria, che barcollava sul banco della chiesa, commosse decisamente Dona Júlia, che si incaricò di incontrarlo e guidò il resto del processo, fino al matrimonio. Non le dava mai fastidio il fatto che fosse un assiduo bevitore. “Mio marito beveva sempre, dice, ma non litigava, non era aggressivo. Beveva e basta e non diceva niente”. Era un venditore ambulante e sosteneva la casa. Dopo essersi sposata, D. Júlia ha iniziato ad aumentare la famiglia, senza che questo fosse il piano della coppia. “Stavo avendo i bambini e non ha mai detto niente.”

Tuttavia, nella quarta gravidanza, che è arrivata poco dopo la terza, il marito ne ha parlato, chiedendo “Un’altra?” Quella semplice affermazione produsse in Giulia un profondo disagio: nonostante fosse ancora al primo mese di gravidanza, cominciò a sentire il feto contorcersi nel suo grembo, senza un posto. Questa sensazione durò per tutta la gravidanza, durante la quale prevalse l’attesa di un aborto spontaneo. Tuttavia, il bambino si è vendicato ed è nato al momento giusto. Lu nasce quindi, secondo Júlia, il suo bambino più bello.

Lu è cresciuto normalmente, fino al giorno in cui suo padre ha fatto una seconda considerazione, dicendo alla moglie: “Non è ora di svezzare questa ragazza?” Per la seconda volta, una dichiarazione del marito mette profondamente a disagio D. Júlia. Decide quindi di buttare via tutti i biberon e i ciucci di Lu. La sera dello stesso giorno dice alla figlia: “Da oggi non c’è più bottiglia perché tuo padre non la vuole”. Lu aveva poco meno di due anni.

Secondo il racconto di Júlia, la figlia accettò questo brusco svezzamento senza alcuna obiezione, ma dal giorno successivo iniziò a rifiutare decisamente il cibo solido. Questo problema è stato risolto con l’acquisto di nuove bottiglie. Nei tre anni successivi, Lu viene nutrita solo con il biberon, sviluppando gradualmente una grave condizione di denutrizione, che culmina nel suo ricovero in ospedale.

Irritabilità e mancanza di comunicazione con i familiari caratterizzeranno il comportamento di Lu dopo il periodo di ricovero, durato alcuni mesi. Comincia anche a mostrare paura davanti a chiunque sia vestito con abiti bianchi o con un camice da laboratorio, che è una delle reazioni caratteristiche dell’ospedalismo. In quell’occasione, Júlia gli dice: “Non vuoi tornare in ospedale, vero? Se non vuoi tornare, devi mangiare tutto bene”. Lu si lascia nutrire, ma il suo comportamento peggiora al punto che i medici raccomandano la scuola di educazione speciale.

Questa storia di Lu è stata presentata agli insegnanti che hanno lavorato direttamente con lei. Spiccava il commento senza pretese del buon marito ubriaco, che, senza dubbio, interferiva con il posto del desiderio riservato dalla madre al suo quarto figlio. La posizione di queste ultime può essere paragonata a quella delle figlie di Lot, del testo biblico, le quali, per garantire la procreazione della specie umana, facevano ubriacare il padre affinché questi, inconsapevolmente, le fecondasse. La risposta che arriva al commento del marito e una sensazione di estraneità che ricade sul feto, associata all’idea che non trova più posto nel suo grembo e nel mondo.

In un secondo momento (T2), un altro commento del marito – questa volta sullo svezzamento – dà un senso a quello che sarebbe successo all’inizio della gravidanza (T1). La madre comprende che è necessario introdurre una separazione radicale per il bambino. Così lo svezzamento, che prima o poi capita a tutti i soggetti, è legato a un significato iniziato dal marito riguardo al rapporto della madre con la prole. Il soggetto risponde con l’anoressia, che non è solo rifiuto di lasciarsi nutrire, ma anche rifiuto dell’altro materno, del senso che si trova nel campo del desiderio di questo Altro. In quanto risposta del soggetto, risposta della realtà, questo sintomo rimane velato, cioè non riceve un’interpretazione e, successivamente, viene denominato e trattato come malnutrizione.

Il colloquio con la madre spiega l’enigma della parola. In effetti, anche a casa Lu non parlava, emetteva solo dei suoni senza senso, quando ascoltava dischi con musica sacra: “Lei parla, ma in quei momenti parla inglese”. Le osservazioni fatte nelle aule e durante le pause hanno mostrato la preoccupazione di Lu per i limiti del suo corpo per esempio, si rannicchiava, si piegava e usava i tutori per avvolgersi in una spirale, come se la mano fosse tesa verso di lei poteva penetrare nel suo corpo.

Durante la ricreazione, di solito era sola, appoggiata al muro, nascosta dietro i suoi lunghi capelli neri, premendo la schiena contro il muro e tirando la pancia in dentro, ogni volta che un bambino le passava accanto. In soggiorno, sedeva di fronte alla porta, osservando chi entrava e chi usciva. Avevo paura di passare attraverso il lato della porta. Quando è arrivato il momento di lasciare la stanza, ero ansioso, insicuro. Un giorno la maestra le ha offerto una mano per aiutarla a superare questo limite. Dopodiché, ha sempre atteso con impazienza questo aiuto. È stata evidenziata l’importanza del contatto di Lu con l’insegnante, a cui questo insegnante chiede: “Wow, che responsabilità! Cosa devo fare?” a cui gli è stato risposto: “Non fare niente di diverso. Permetti solo a lei di farlo”.

Dopo questa presentazione, il progressivo cambiamento di Lu alla Scuola ha sorpreso tutti. “Prima si rappresentava, in classe, come un puntino nell’angolo di un foglio. Recentemente ha fatto un disegno che la rappresentava da piccola, in una culla, prendendo diversi biberon. Mi sono ricordata della sua storia”, ha raccontato l’insegnante. “Prima si nascondeva da tutti. Ora, quando vengo preso per fare qualcosa, lei è la prima a volerlo mostrare. Solleva il quaderno e grugnisci finché non parlo dell’esercizio.” Queste due testimonianze esemplificano, a nostro avviso, la possibile invenzione, in classe, dall’introduzione di alcuni elementi della soggettività degli studenti difficili.

CONSIDERAZIONI FINALI

Gli effetti terapeutici di questa esperienza sulla studentessa e i cambiamenti da lei presentati nel campo delle attività pedagogiche hanno portato l’insegnante a cercare un consulente educativo per discutere la fattibilità di un’opera educativa, che, inizialmente, metteva in sospeso lo scopo dell’alfabetizzazione. Questa proposta era già stata concepita, ma mai messa in pratica. Costituivano così un gruppo di ragazze, in cui il ritardo scolastico non era più ciò che identificava gli elementi del gruppo, ma ciò che poteva essere identificato come desiderio delle studentesse. Cosa potrebbe interessare a questi ragazzi, di età compresa tra i 12 ei 14 anni, che, come Lu, frequentavano la scuola da molti anni e non avevano imparato a leggere ea scrivere? Questa è stata la prima domanda posta alla classe il primo giorno di lezione. Hanno scelto di imparare a dipingersi le unghie, conoscere prodotti per capelli e parlare di moda. Hanno iniziato a chiamarsi soprannomi: “stupido, tapiro, petto grosso”… “Mudinha” era il soprannome di Lu.

L’insegnante ha attirato l’attenzione delle ragazze su questi soprannomi. Ha detto loro che, quando era una studentessa, si chiamava Olivia Palito – perché era molto magra – e questo non le piaceva. Ha anche detto che facevano parte di un nuovo gruppo che aveva fatto progressi nell’apprendimento e, quindi, avrebbero dovuto trovare altri modi di trattarsi reciprocamente, altre alternative di identificazione che rendessero utile la proposta del gruppo di essere un gruppo di giovani donne. Le attività svolte dal gruppo includevano passeggiate all’interno della scuola per osservare ciò che poteva interessare loro da giovani. In una di queste passeggiate, quando vedevano dei ragazzi in una pubblica piazza, le studentesse fischiavano loro, scherzando. Questo fatto ha messo in imbarazzo l’insegnante che ha deciso di tornare immediatamente a scuola e discutere con loro dell’adeguatezza del comportamento del gruppo, in vista della nuova identità che cercavano di costruire.

Nel suo intervento in proposito, le studentesse hanno detto: “Non è così, perché sono sposata e non ho intenzione di uscire con ragazze che cantano di uomini per strada”. Si può notare nei tipi di commenti che l’insegnante inizia a fare con questo gruppo, l’introduzione di elementi della propria soggettività, una caratteristica che prima difficilmente si osservava nel suo lavoro didattico in classe. Durante una delle numerose escursioni extrascolastiche, la classe ha assistito con grande interesse alle lezioni di danza del ventre in palestra. Il contatto tra l’insegnante del gruppo e l’insegnante di danza ha portato all’offerta di lezioni gratuite al gruppo, che inizialmente si è ritirato per paura, ma poi ha accettato.

Sebbene questa opportunità fosse una contingenza, dall’offerta di una persona che non aveva alcun legame istituzionale con quel gruppo di studenti, finì per costituire il motore del desiderio di apprendere e permise l’avvio del processo di alfabetizzazione: inizialmente, gli studenti espressero un vivo interesse nell’imparare i numeri per scandire i tempi del ballo. In seguito, per la presentazione pubblica che stavano per fare, vollero imparare a leggere e scrivere il proprio nome e quello del maestro in modo da poterli leggere i manifesti pubblicitari. Durante tutto questo processo, Lu è stata accolta e aiutata dai suoi colleghi, e lei ha risposto dimostrando di aver acquisito la possibilità di includere altre persone nella sua relazione, senza panico.

Si conclude che è possibile, con la metodologia proposta, aumentare la consapevolezza degli studenti sulla materia, fornire loro strumenti per identificare e valutare le proprie opportunità e qualità e, fondamentalmente, possiamo incoraggiare le persone a credere nelle proprie potenzialità, a sogna in alto e realizza i sogni. Pertanto, questo lavoro è rivolto a professionisti dei nuovi tempi, che si impegnano a portare questi studenti lontano dai margini in cui vivono, inserendoli efficacemente nell’ambiente scolastico, in modo che abbiano il coraggio di rischiare e non abbiano paura di trasformare i sogni in realtà.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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GUTIERRA, Beatriz Cauduro Cruz; Adolescência, Psicanálise e Educação- O Mestre Possível de Adolescentes; Avercamp, 2003.

HABIGZANG, Luísa Fernanda; DINIZ, Eva; KOLLER, Silvia;, Trabalhando com Adolescentes- Teoria e Intervenção Psicologica, Artmed, 2014.

LEVISKY, David Léo; Adolescência Reflexões Psicanalíticas, Zagodoni, 2013.

MURATORI, Filippo; Jovens Violentos- Quem são, o que Pensam, Como Ajudá-los? Paulinas, 2007.

RAPPAPORT, Clara Regina; Adolescência: Abordagem Psicanalítica; Epu, 1993.

[1] Master in Scienze Aziendali, con un MBA in Istruzione Superiore e Controllership e Competenza Giudiziaria.

Inviato: Gennaio 2019.

Approvato: Maggio 2019.

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